Ci risiamo.
Guardiamoci intorno: siamo circondati da un mondo che è stato convinto che la cultura sia lo spettacolo o la contemplazione delle opere d’arte, tutta roba che si può fare in TV o in rete per passare il tempo.
Abitiamo in una nazione che sta trasformando il suo patrimonio culturale in gigantesca Disneyland: divertente e inutile, come divertenti e inutili sono quelli che ci lavorano.
Una nazione che è più interessata a vantarsi di essere patria di Galileo o di Colombo che a preoccuparsi che persone formate nella scuola statale possano ritenere plausibile il terrapiattismo.
Per cui, chiudere teatri, auditorium, cinema o cose del genere è come sbattere nelle segrete il giullare di corte sospettato di aver portato la peste a palazzo, che tanto a cosa serve se non a “far divertire”? (e soprattutto, chi ne sentirà la mancanza?)
Ma il problema non è solo nei vertici: siamo circondati da cittadini (con regolare diritto di voto) che non hanno idea del fatto che se ci siamo evoluti, dai tempi di Neanderthal, è anche perchè abbiamo imparato a vivere tramite lo studio della storia, della letteratura, della filosofia, della musica, della fisica, della chimica e di tutto il resto. Ossia che abbiamo (o dovremmo aver) imparato – in secoli di evoluzione – che tramite tutte queste discipline possiamo vivere meglio rispetto ad affidarci, come delle bestie, alla pancia o all’istinto (o a quello che alcuni chiamano buonsenso, che non ho ancora capito in cosa si differenzi da pancia e istinto).
Però, abbiamo un ministero della cultura (e anche tanti assessorati) che si ritiene solo una struttura preposta all’intrattenimento, ma che di culturale (nel senso di formativo, educativo nei confronti dei cittadini che ne finanziano l’esistenza) non fa assolutamente niente. E quindi cosa vi stavate aspettando? Qualcuno che intervenisse a favore del fatto che la separazione tra persone in un teatro è molto più facile ed efficace che su di un mezzo pubblico? Chi è stato in un teatro negli ultimi mesi sa che è così; chi ha lavorato nello spettacolo in questi mesi si è ammazzato per rendere tutto sicuro e fruibile; chi afferma il contrario è in malafede. Si è cercato di fare di tutto per garantire i posti di lavoro e continuare a fornire un servizio persi in mille difficoltà.
Ma adesso arriva il governo e sega le gambe a tutti “ma vi daremo i sussidi”.
Mio Dio.
Si può dire la stessa cosa di chi gestisce i mezzi pubblici? Delle aziende che “ok lo smart working ma solo tre giorni su cinque anche se fai lavoro d’ufficio perchè sai venire in ufficio è importante”? Delle amministrazioni comunali che hanno autorizzato mercatini, feste di piazza e altri circenses senza il minimo controllo? Di un milione di altre cose che sono sanitariamente molto più creatrici di contatto rispetto a essere in duecento in un teatro da mille persone (o in venti in uno da cento)?
Come abbiamo visto durante i mesi passati, in Italia non frega a nessuno di acculturare, anzi, più lo spettacolo è pagato dallo stato (anche se in sala non c’è nessuno) e meglio è (qualcuno ricorda, qualche mese fa, il fatto che i titoli artistici per le graduatorie scolastiche valessero solo se fatti per eventi dal FUS?).
Le strutture preposte alla cultura dovrebbero invece – l’ho già detto cento volte, scusate se mi ripeto – fare cultura, ossia formare un pubblico che poi, avendo compreso il valore di qualcosa, ci investe e crea indotto.
Invece, i lavoratori della cultura sono stati da tempo declassati a giullari di corte: è il sovrano che sceglie se ci sono, è il sovrano che sceglie se devono vivere o morire.
Sono un semplice veicolo di intrattenimento, e quindi rinunciabile, considerando che nessuno ne percepisce il valore.
Ma segando loro le gambe si fornisce il “segnale forte”, si mostra di star facendo qualcosa, specie se il taglio non tocca altre cose i cui fruitori avrebbero reclamato a gran voce. Cosa sarebbe successo se, invece di giocare a porte chiuse, avessero nuovamente fermato il campionato? Eppure la differenza mi sembra evidente tra avere 22 giocatori in campo che non possono certo garantire il metro di distanza – a meno di non giocare con una palla gonfiabile da spiaggia – e avere 22 orchestrali seduti su un palco. Dopoichè, è chiaro, sono ferme le attività con pubblico, ma senza pubblico si può lavorare.
E come?
Forse la Netflix della cultura, panacea universale amata dal nostro ministro, adesso si attiverà magicamente e distribuirà svanziche a tutti?
Ah no, dimenticavo, hanno stanziato i fondi ma non hanno ancora fatto niente: Roma non è stata fatta in un giorno, figurati Netflix (non vi dico Netflix fatta a Roma). E anche l’avessero fatta saremmo da capo a quindici, perchè non avrebbero formato il pubblico che avrebbe dovuto fruirne.
In fin dei conti, quanti italiani spendono soldi per un concerto, per un libro, per uno spettacolo teatrale che non sia Fusaro, la Litizzetto, Saviano, i Vanzina, Brignano, o l’abbonamento a Netflix (quella vera)?
La crisi sanitaria del Covid-19, purtroppo, si è sviluppata nel periodo più basso della cultura italiana da millenni. A peggiorare la cosa, è gestita da un governo perso nel nulla che mira unicamente a non scontentare nessuno (faccio il provvedimento, proteste, via il provvedimento, faccio altro provvedimento, proteste, via altro provvedimento e via così) e a fare provvedimenti a metà (abbiamo creato gli ospedali. Ops abbiamo dimenticato i medici. Abbiamo chiuso i locali a mezzanotte. Ops, possono riaprire a mezzanotte e un quarto).
Dall’altra parte, un’opposizione che si guarda bene dal far cadere l’esecutivo perchè ovviamente nessuno è così scemo dal prendersi in mano la patata bollente.
E sullo sfondo, come una marea incontrollata, sale da tutte le direzioni un’ignoranza crassa, boriosa, abissale nutrita da una scuola che arranca e da governi che mirano solo a corrompere meglio l’elettore: ti cancello le tasse, ti regalo gli 80 euro, ti bonifico il reddito di cittadinanza, ti pago il monopattino, ti regalo il fenicottero rosa, ti sconto le vacanze. A sottolineare che il suffragio universale in assenza di opportuna formazione dell’elettorato vuol solo dire lasciare il campo a chi promette l’asino che vola più in alto. A chi frega di votare una coalizione che dica “porterò la scuola a livelli europei”? Ormai leggiamo in giro elettori secondo cui la scuola “insegna il latino ma non prepara alla vita” perchè non insegna a pagare una bolletta o a chiedere un mutuo: come se un figlio di un contadino negli anni 30 avesse protestato perchè la scuola non gli insegnava la rotazione delle colture o la mungitura delle vacche.
In uno scenario nazionale che tollera terrapiattisti, antivaccinisti, anti5g, negazionisti di ogni ordine e grado (che anzi si credono “seguaci del libero pensiero”, ma non sanno che “pensare” senza avere gli elementi è solo sparare a caso) è ovvio che il ragionamento logico e ovvio diventa “ma io non sono mai andato a teatro, a cosa servono i teatri? i teatranti si trovino un lavoro” “ma io non ho mai letto un libro, a cosa servono i libri? chi lavora in editoria si trovi un lavoro vero” che è poi padre del “ma io non conosco nessuno che si sia ammalato, il virus non esiste” (Domanda, quanti ammalati di AIDS avete tra i vostri amici?), che a sua volta è un parente strettissimo del “ah, tu sei un musicista/attore/scenografo/light designer/fonico. E di mestiere cosa fai?” che tutti tollerano ridacchiando. Da anni.
Se davvero i lavoratori della cultura questa volta scenderanno in piazza tutti uniti, vorrei vedere accanto a loro – nelle stesse piazze, nelle stesse strade – i fruitori della cultura, gli uomini di cultura, quelli che sanno quanto è importante chi lavora nella cultura, a discapito di chi, a Roma, è convinto che elargendo un po’ di elemosina e chiudendo i teatri avrà ponziopilatamente fatto il suo.
Diteci che ci siete, fruitori della cultura.
Perchè ieri sono stati i convegni, oggi sono i teatri, e domani sono le università e i centri di ricerca. E le biblioteche. E le scuole. Tutta roba che molti aventi diritto di voto ritengono integralmente inutile.
Diteci che ci siete, persone di cultura.
Abbiamo bisogno di voi.

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