Antefatto: un venerdì sera d’inverno, passeggiando per il centro di Sal Rei.
L’isola di Boa Vista, terza per dimensione nell’arcipelago di Capo Verde, si estende su un’area di 620 chilometri quadrati (tre volte e mezza la città di Milano), per un totale di dodicimila abitanti circa che popolano sette centri abitati. Di questi, il più grande è Sal Rei, circa settemila abitanti. L’isola è povera: non piove da quattro anni e solo in una piccola zona a nord est si fa un po’ di agricoltura, ma da una quindicina d’anni è arrivata una boccata d’aria grazie a un po’ di turismo: l’edificazione di sei grossi alberghi non solo ha dato lavoro a diverse migliaia di persone, ma ha anche attratto qui – dalla terraferma e dalle isole circostanti – molte persone in cerca di un impiego, tanto che dal 2010 la popolazione è quasi raddoppiata, (nonostante molti dei locali vadano a cercare migliori opportunità all’estero: qui i salari difficilmente superano i 300 euro mensili, una miseria per qualcuno, una fortuna per qualcun altro; ogni nazione ha chi la vuol raggiungere, chi ci vuol restare e chi la vuol lasciare). Un’amministrazione illuminata ha ottenuto la costruzione dell’aeroporto (fino al 2007 qui si arrivava solo via mare), di strade asfaltate (prima erano lastricate: secondo la tradizione, gli uomini che spaccavano le pietre e le donne le posavano: in effetti sono ordinatissime), di tre impianti eolici per l’energia elettrica e di alcuni dissalatori.
Sono le nove di sera: nella piazza principale di Sal Rei c’è un ristorante all’aperto frequentato da gente del posto dove si suona dal vivo musica locale (tra l’altro con un groove di basso e batteria da far impallidire chiunque). Ai lati della piazza sorgono vari negozi, il municipio, la scuola di musica (!) e Santa Isabella, una delle sette chiese dell’isola, che è aperta e illuminata. Dentro, una direttrice sta provando un canto in portoghese con un coro di ragazzi (a occhio, tra i 10 e i 16 anni), accompagnato da una tastiera (che suona alcuni semplici accordi), da uno djembè e da un tamburello. I ragazzi sono intonatissimi e le percussioni, pur limitandosi ad alcuni semplici pattern, hanno una precisione sia ritmica che timbrica degna di una batteria elettronica. In più l’acustica della chiesa è secca, quindi non si crea alcuna confusione. I canti si concludono sempre con un ritenuto piuttosto brusco, ma senza mai perdere l’insieme.
Un’occhiata all’orario delle Messe della domenica successiva. Ore 11. Ottimo.

Narrazione: Domenica mattina, ore 11, Messa nella chiesa di Santa Isabella a Sal Rei.
Inizio della celebrazione. Rispetto alla prova, non c’è più la direttrice e non c’è più la tastiera, ma le voci mantengono un insieme e un’intonazione sempre eccellenti; ci sono sempre le percussioni, suonate da ragazzi che sanno il fatto loro, fornendo un accompagnamento semplice e preciso, senza variazioni o fill. Il popolo che stipa la chiesa (circa 300 persone, facendo un calcolo rapido sul numero delle panche e sulla gente in piedi) canta a fior di labbra, come chi sente una melodia nota, e non puoi fare a meno di pensare che come dalle nostre parti anche qui non ci sia una gran partecipazione al canto assembleare. Ma dopo i riti di introduzione, altre voci – decisamente più mature – intonano un Kyrie di otto battute, non semplicissimo, a cui però la gente risponde con un boato, in alternatim con le voci che presumo essere degli anziani: il coro canta con l’assemblea.
A questo punto cominciano a tornare i conti: l’assemblea è educata alla partecipazione, e quindi canta quando sa che deve cantare, e ascolta quando sa che deve ascoltare.
Segue infatti il Gloria, suddiviso in diverse sezioni, alternate tra coro e assemblea, e qui rientrano in gioco le percussioni (suonate dai ragazzi del coro, che avranno dai 10 ai 15 anni). Le varie parti del Gloria sono in tempi diversi, non correlati secondo una proporzione, e i due percussionisti cambiano tempo rimanendo costantemente incollati: l’assemblea sa quando deve rispondere e quando deve ascoltare: è una partitura in cui ognuno conosce il suo ruolo, non un ammasso disordinato all’insegna della “partecipazione”.
Liturgia della parola: a ogni lettura, i chierici vanno a prendere i lettori al banco dove sono seduti, li portano davanti all’altare a prendere la benedizione, li scortano all’ambone, li riportano all’altare per un inchino e li riaccompagnano al banco.
Alleluia (assembleare), Vangelo, Omelia: la predica dura quasi mezz’ora, e la gente ascolta interessata, annuisce, ride a qualche battuta del celebrante: una bambina che non vuole stare in braccio alla mamma gioca per terra nel corridoio centrale ma non disturba, e nessuno protesta. I bambini un po’ più grandi sono in alto sulla cantoria, tutti insieme, non vola una mosca.
All’offertorio, si inizia con il canto (lungo diverse strofe), sempre intonato dal solo coro: l’assemblea ascolta, qualcuno canticchia, ma nessuno alza la voce (è il momento del coro, perchè rovinare il loro canto?), e intanto si fa la colletta, e tutti lasciano la loro offerta. Solo dopo la fine del canto, si passa alla presentazione dei doni, portati con ordine all’altare da più persone coordinate da una suora che li fa marciare lungo la navata con precisione millimetrica: terminati i doni, il canto ricomincia e si incensa l’altare: finisce l’incensazione, il sacerdote attende le due strofe mancanti del canto e si va avanti col rito.
Prefazio, Sanctus (assembleare), preghiera eucaristica, padre nostro, comunione: il coro canta mentre il popolo va verso i diversi ministri posizionati in diverse parti della piccola chiesa, per fare in modo che la gente debba muoversi il meno possibile.
Ringraziamento, si canta tutti insieme. Ma il coro, nei ritornelli, intona un discanto per cui tutta la chiesa trabocca di musica. Niente di trascendentale, musica semplicissima, due voci (assemblea e discanto) e percussioni ma effetto fantastico: l’assemblea conosce il suo ruolo e la sua parte musicale.
Un’occhiata al foglietto della Messa: il parroco ricorda ai fedeli i giorni di apertura della Caritas per portare viveri non deperibili alle persone dell’isola che non hanno cibo. Anche se sei povero, c’è sempre qualcuno che sta peggio di te.
Guardo l’orologio: è passata un’ora e mezza, e non ho mai visto una Messa così viva.

Flashback: qualche sera prima, all’interno di un’antichissima basilica posta in una importante capitale europea, luogo carico di storia e di arte, in passato sede di miracoli e di martirii.
La Messa di Mezzanotte dura 50 minuti al massimo.
Il coro intona alcune canzoncine tradizionali preparate in due prove, tanto sono facili, ma riesce comunque a perdersi ogni tanto.
L’assemblea ascolta distratta, qualche volta canta, qualche volta no.
Un paio di coristi hanno fatto anche da lettori.
Cinque preti bardati manco si fosse in Vaticano, e tre chierichetti.
Il parroco legge la predica da un foglio senza neanche alzare lo sguardo, come se fosse un mezzobusto del telegiornale.
Metà chiesa è vuota, e l’altra metà non vede l’ora di andare a casa.

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2 comments

Hai detto bene. Aggiungo: nell’Italia preconciliare i cori parrocchiali hanno dato la prima istruzione musicale a bambini di nome Enrico Caruso e Beniamino Gigli. Poi, con la formula della “actuosa participatio”, siamo arrivati a una situazione in cui tutti cantano tutto (stonando). Si salvano alcune comunità immigrate, che seguono ciascuna la propria tradizione, ma soprattutto i greco-cattolici, dove il clero ha di regola un’ottima formazione tecnica impartita nei loro seminarii, esistono piccoli gruppi amatoriali bene addestrati (non proprio “scholae cantorum”, ma quasi) e il popolo canta a piena voce i principali responsorii e qualche inno; il tutto a cappella senza bisogno di chitarre né di organo, tastiera Yamaha o simili. Questo ad esempio in Calabria, in Sicilia e a Torino; parlo solo di quello che ho ascoltato. Viceversa in una cittadina dell’Italia centrale, sede di un prestigioso festival, ho sentito una ventina di giovani di buona famiglia incapaci di cantare decentemente all’unisono “Tanti auguri a te”. 😠

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