Il concetto di musica e quello di proprietà sono stati spesso in forte relazione tra loro. Probabilmente proprio per l’impalpabilità della musica, il possedere un elemento fisico che accorciasse le distanze e ci ponesse maggiormente in contatto con la possibilità di rievocare i suoni associati a un certo brano o a una certa circostanza e’ sempre stato un fattore che caratterizzava l’appassionato di musica.

Nel corso dei secoli le forme di possesso che hanno caratterizzato l’ascoltatore musicale hanno sempre evidenziato anche diversi livelli di possibilità di accesso: acquistare una partitura o un disco rappresentava un investimento e, visto che i fondi erano limitati, ovviamente non ci si poteva permettere tutto quello che si desiderava. Per ciò cui bisognava rinunciare, si ricorreva all’illegalità della fotocopia (e prima delle fotocopie ci si copiava gli spartiti a mano; e non era cosi’ raro, fidatevi) o della cassetta fatta fare dall’amico (in tempi più’ recenti, i CD masterizzati, gli Mp3 e quant’altro).

Un disco, un libro o uno spartito erano inoltre interessanti oggetti da regalo e un qualcosa che si prestava con somma circospezione per paura che non tornasse indietro o, peggio, tornasse rovinato. Ognuno ne aveva in collezioni più o meno grandi, causando spesso situazioni di cooperazione: magari veniva pubblicato qualcosa in più’ parti e ci si divideva l’acquisto (il caso più eclatante della mia epoca fu Use your Illusion dei Guns ‘n Roses, pubblicato in due volumi, in cui tipicamente due amici si accordavano per comprarne uno ciascuno e scambiarsi le cassette per il secondo. E chi poteva acquistare tutti e due era ovviamente guardato con molta invidia (per quanto probabilmente avesse mangiato pane e cipolle per mesi, con ovvia conseguente esclusione dalla vita sociale, ma tanto lui poteva sentirsi i Guns).

A questo va aggiunto anche il discorso del disco “raro” per il quale potevi essere disposto a fare la corte a qualcuno per mesi pur di averlo in prestito (o averne una copia), o setacciare i negozi di mezza Europa fino a trovarne un esemplare (che ovviamente non perdevi occasione di mostrare come trofeo).

Chi fece parte dei Napsteriani della prima ora (1998), come me, lo faceva solo perché era come avere a disposizione un numero infinito di amici da cui farti fare, gratuitamente, un numero infinito di cassette per ascoltare tutto quello che avevi sempre voluto ascoltare: infatti se sentivi un album copiato che ti piaceva lo mettevi subito in lista tra le cose da acquistare, anche se ne avevi già una copia.

C’erano tutti i vantaggi: si comprava di più e si comprava meglio, perché non rischiavi più la fregatura: quello che acquistavi (tranne magari qualche novità su cui accettavi il rischio della scatola chiusa) spesso l’avevi già sentito e sapevi che ti piaceva. Il disco originale era infatti un’altra cosa: c’era la copertina, i testi, una qualità sonora infinitamente migliore, le informazioni su chi suonava, l’artwork. Era un prodotto di tutt’altro livello, non c’erano santi. La tua collezione personale era quindi sempre pronta a guadagnare pezzi nuovi.

Questo però implicava che tu avessi un reale interesse in quanto ascoltavi: se il tuo interesse era solo per la canzone dell’estate, potevi al massimo pensare di acquistarne il singolo: quando i singoli sparirono, ovviamente in pochi erano intenzionati ad acquistarsi un intero LP col rischio di finire ad ascoltarne solo una canzone (con conseguente trionfo dele compilation). E questo tentativo di spostare il pubblico sull’articolo di costo superiore tuttavia aveva creato non pochi danni nell’industria discografica (per approfondire, leggete l’unica vera storia della pirateria musicale, alias l’eccezionale “Free – Cosa succede quando un’intera generazione commette lo stesso crimine?” di Stephen Witt, edizioni Einaudi. Garantito che non lo metterete giù fino all’ultima pagina).

Il mondo attuale ha relegato a una nicchia i prodotti “fisici” e punta in modo deciso verso il mercato del digitale (iTunes, Spotify, Amazon), e il problema di fatto non è questo (per quanto i più feticisti tra gli amanti del supporto musicale si chiedano come si fa senza avere “nulla in mano”). C’è una grande comodità (trasporto, spazio di stoccaggio, possibilità di avere sempre con sé tutta la propria collezione, niente dischi che si graffiano, eccetera). Tuttavia, ai più è sfuggito il fatto che l’accesso alle piattaforme di cui sopra, et similianon ti fa possedere niente.

Spotify dei tre è il più evidente: una specie di radio on demand in cui, se paghi un canone, puoi ascoltare sempre e solo quello che vuoi.

Amazon e iTunes, invece, sono più subdoli: acquisti una specifica canzone, te la scarichi pure, tuttavia si tratta non di un acquisto, ma di un noleggio a lungo termine,  legato ai contratti di licenza che il concessionario ha stipulato con il produttore. Significa che se ti sei comprato l’intera discografia dei Beatles, ma domani mattina le due mele (quella informatica e quella discografica) decidono di revocare i loro accordi, i tuoi files spariscono. Fine. Kaputt. Bye-bye. Au revoir. Stesso discorso, ad esempio, per i libri sul Kindle o equivalenti.

Questa è, de facto, la fine della proprietà privata in ambito musicale e l’inizio della giustizia sociale: tutti hanno a disposizione tutto, per una cifra modesta, mostruosamente più bassa rispetto all’acquisto di tutti i singoli dischi. Non serve il capitale per accedere ai contenuti. Non crea più differenze il fatto di avere a disposizione la collezione del padre o del fratello maggiore, oppure di avere costruito il proprio archivio LP dopo LP.

Tuttavia, ci sono due aspetti non del tutto trascurabili

a. accesso a tutto e proprietà di niente significa che la proprietà è di qualcun altro, che a questo punto si inserisce come player di peso all’interno della catena produttiva della musica: spotify/iTunes acquistano un servizio che è ben diverso dal comprare tante copie quante quelle che verranno ascoltate. Questo ovviamente spariglia le carte in tavola, in particolare in relazione alle rendite che devono, alla fine della catena, pareggiare le spese di realizzazione di un’industria comunque in aperta crisi. Detto in altri termini: il cantante della hit estiva che viene ascoltata da tutti su spotify avrà certamente una visibilità enorme, ma dalle vendite del brano non guadagna nulla. E quindi, o è sufficientemente bravo a sfruttare la propria immagine per rientrare dai costi a partire da un’altra fonte, oppure risolverà il tutto con un fallimento.

b. Un accesso a tutto che non implichi alcuna selezione o è suffragato da una sufficiente cultura in materia o è corroborato da una sana curiosità; entrambe le cose però devono essere fomentate dal contesto, il che, specie in questo periodo, non succede molto spesso (ne abbiamo infatti parlato qui). In questo senso, avere accesso a tutto può tranquillamente essere come non avere accesso a niente.

Si tratta di una meravigliosa applicazione di una negazione della proprietà privata per passare dal capitalismo del collezionismo musicale al comunismo dell’accesso controllato da un’autorità centralizzata che può decidere cosa tu ascolterai e cosa non ascolterai, sulla base dei propri accordi commerciali. Vale a dire: se da domani esistesse solo Spotify e si decidesse di non ascoltare più certa musica per motivi, non potremmo tornare all’ascolto in cantina dei dischi “proibiti”, come ad esempio si faceva con gli artisti neri in Italia e Germania durante gli anni 30.

In questo senso, youtube con il suo mondo anarchico e incontrollato sembrerebbe quasi meglio, ma a YT bisogna poterci accedere, il che non significa solo avere una connessione a internet. Ma se pensate che da determinati paesi del mondo non si può proprio accedere a youtube, l’effetto è replicato.

In tutto questo, si torna sempre allo stesso discorso: la cultura e la conoscenza sono (e devono essere) dentro di noi, non dipendono da quanti libri abbiamo o da quanti dischi possediamo. In questo momento, anche avere accesso all’universo dello scibile non ci garantisce di poterne usufruire e, tanto meno, di poterlo diffondere ad altri. Anche perché solo avere questo tipo di conoscenza può salvarci e farci compagnia anche quando dovessimo trovarci chiusi in una stanza vuota.

 

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