Maurizio Pollini alla Scala e’ un emblema di quello spirito Milanese che ha attraversato gli ultimi cinquant’anni; amatissimo o odiatissimo da quelli della mia generazione, che sono nati negli anni dei suoi primi storici dischi DGG ma anche dei concerti nelle fabbriche e dell’impegno a favore della musica di Schoenberg, Nono, Manzoni, Boulez…

Non sentivo un suo recital in scala da diversi anni, non ricordo piu’ quanti ma penso almeno una decina, e l’ho trovato, devo dire, molto cambiato. E’ un Pollini che nella prima parte risulta meno legato a una sua certa qual zampata aggressiva (marchio di fabbrica di molte sue registrazioni), e che restituisce uno chopin molto piu’ introspettivo e interrrogativo del solito. Anche quando cerca l’esplosione del fuoco d’artifico (come nello scherzo in si minore che chiude la prima parte) sembra sempre leggermente opaco (per quanto la posizione del pianoforte sembrasse non ottimale), ci si domanda se comunque sia l’età (mi dicono non fosse apparso molto in forma nell’incontro di qualche giorno fa), anche se e’ immediato il confronto con Horowitz che aveva inciso questo stesso pezzo nell’86, a 82 anni (mentre Pollini ne ha 74), con ben altri esiti in termini di lucentezza di suono (per quanto la maggiore introspezione di Pollini me lo fara’ sempre preferire come musicista).

Intervallo, il fedele Fabbrini sistema due note, e via con il secondo libro del Preludes di Debussy.

E qui accade il miracolo.

Siamo immersi in una sala buia, con i soli riflettori sul pianoforte, eppure il teatro sembra illuminato da giochi di luce meravigliosi e immerso in una scenografia perfetta. Le suggestioni di Debussy, dalla caricatura del General Lavine alle nebbie e alle brughiere fino al fuoco d’artificio finale, diventano palpabili, e questo soprattutto grazie alle immense doti coloristiche (Raccontava Nuria Schoenberg di come Nono fosse da subito rimasto colpito dal numero di “pianissimo” diversi che Pollini era in grado di realizzare). Sono quaranta minuti di monologo che vanno dal poetico al tragico al comico, senza perdere neanche per un istante l’attenzione del pubblico.

Sul primo bis (la cathedrale engloutie) Pollini sembra continuare nella regola del play safe, rimanendo sulla scia di preludes appena conclusi, ma quello che stupisce e’ l’ampiezza del suo suono, che riempie ogni angolo della sala. Dal secondo bis, pero’, scatta il riscatto della prima parte: lo scherzo in do diesis minore (il terzo) di Chopin scintillante come non mai, pulito, preciso, deflagrante. E il terzo bis, fatto ormai con le luci di sala accese (per un pubblico che si ferma ad acclamare e non si dedica al tipico sport della fuga alla milanese ovverosia precipitarsi verso l’uscita a fine concerto), regala la buonanotte ai tutti con una delicatissima esecuzione della Berceuse chopiniana, forse il primo momento veramente sereno della serata.

Serata che alla fine ti riporta in mente quella che sarebbe veramente la Milano che vorresti riavere indietro, di cui hai fatto a tampo ad afferrare qualche scampolo da ragazzino: quella dei Paolo Grassi, degi Abbado, degli Strehler, dei Pollini, ma anche della citta’ in cui Gerry Mulligan si presentava in smoking al Capolinea tardissimo nelle serate dopo che era stato in Scala a vedere un concerto o un balletto, e rimaneva li’ a improvvisare con chi c’era.

E chiedendosi che cosa ci si potra’ ricordare, tra trent’anni, della Milano del 2016, perche’ io in questo momento non riesco a immaginarlo; e spero che sia solo miopia mia. E grazie a tutti i miei amici che hanno festeggiato i miei 40 facendomi lo splendido regalo del biglietto per questo concerto.

Share